domenica 30 dicembre 2012

Come tutto ebbe inizio

Tutto ebbe inizio una fredda giornata d’inverno.

Ricordo che ero in casa e stavo alla finestra a sorseggiare un caffè bollente. Il mio umore era come il tempo che, indolente, osservavo al di là dei vetri appannati e gocciolanti della finestra del salotto.

Pioveva fuori e pioveva dentro di me.

Una pioggia triste, incessante, che intorpidiva i miei sensi, incurante del mio bisogno, di luce, di sole.
Una pioggia che, se osservavo la mia immagine riflessa, diventava pioggia di lacrime sul mio viso, rigato da un dolore sordo, amaro, senza alcuna speranza.

Mia madre, nell’appartamento accanto si era appisolata, sfiancata dal dolore della malattia.
Non era il periodo migliore della mia vita ma lei aveva bisogno di me e dovevo esserci.
Costretta in casa per molte ore al giorno, quel pomeriggio ricordo di aver preso un foglio da un block notes e una matita “rubata” dall’astuccio di mia figlia.
Insomma un foglio bianco.

E la domanda che subito è sorta spontanea è stata :” E ora?”

Ho guardato il foglio per buoni dieci minuti.
Un foglio bianco può essere la cosa più terribile alla quale ci si possa trovare di fronte. In quel candido pezzo di carta c’è tutta la nostra incapacità di esprimerci, c’è la paura di non aver nulla da dire, l’ ansia di ciò che non conosciamo, la terrificante sensazione di essere piccoli e vuoti.
Sono stata più volte tentata di rimettere tutto in un cassetto e semplicemente rinunciare a quel progetto nato da chissà quale neurone insano nella mia testa.
Ma, in una specie di trans, ho cominciato a scarabocchiare la figura di un Samurai perchè la cultura giapponese è sempre stata una delle mie passioni.

Non era facile, però.

Senza nessuna preparazione, senza aver frequentato nemmeno uno straccio di lezione di disegno, i miei tratti erano per lo più infantili e sconnessi. Non c’eravamo proprio.
Rammento di aver preso una pubblicazione che avevo raccolto in fascicoli che trattava proprio del Giappone per avere qualche spunto da copiare.
L’idea di copiare tuttavia non mi piaceva. Se dovevo copiare voleva dire che già qualcun altro aveva fatto quella cosa ed essere solo una “riproduttrice” di immagini, per quanto belle e fedeli all’originale , non mi convinceva.
Se dovevo fare qualcosa, dovevo tuttalpiù ispirarmi ad altri, ma l’impronta doveva essere la mia.

Mi ci dovevo riconoscere, dovevo riuscire a sputare fuori il mio carattere distintivo, il mio modo di creare, il mio modo di essere.
Presa da questa febbrile elucubrazione sfogliavo i fascicoli ad uno ad uno da sinistra a destra e da destra a sinistra. Li scartavo, li riprendevo, li scartavo nuovamente. Mettevo post-it per segnare ciò che mi aveva colpito, scarabocchiavo schemi e incomprensibili segnacci sul block notes , appuntavo idee e continuavo la ricerca senza nemmeno sapere cosa stessi cercando.
Mi ritrovai, dopo una buona ora e senza essermi accorta del tempo che era passato, in quella stanza che sembrava un campo di battaglia.
C’erano giornali dappertutto, fogli scritti in ogni dove, pallottole accartocciate da buttare, post-it colorati che spuntavano dalle pagine di tutte le riviste, in totale un centinaio, che avevo fatto passare.
Improvvisamente fui svegliata da quella specie di dimensione parallela dal campanello di mia madre che si era svegliata.

Lasciai tutto e andai da lei.

Fui ricondotta così improvvisamente alla realtà, a quella realtà che probabilmente avrei fatto non so cosa per non vivere e perchè anche lei non fosse costretta a vivere.
Tuttavia le cose stavano così e bisognava affrontarle.
La accudii con affetto.
Le cose da fare erano tante e impegnative ma mi piaceva passare del tempo con lei ed esserle utile nonostante facessi molta fatica ad avere un atteggiamento sereno sapendo che per lei non c’era più nulla da fare.
Le sistemai il letto, le rinfrescai la fronte e le preparai da mangiare.

Dopo la cena, di solito, si rimaneva in camera sua a chiacchierare fino al momento in cui lei voleva coricarsi.
Anche nella consapevolezza che una tragedia si sarebbe abbattuta su di noi a breve, trovavamo la forza di sorriderle e a volte anche di ridere insieme.
In quelle sere si sono ripercorse vite intere.
Si è parlato di tutto quello che aveva fatto parte della sua infanzia, delle persone che aveva conosciuto, di fatti che avevano costellato la sua esistenza e per mia madre era forse il solo modo di lasciare questa terra.
Fare il punto, riassumere nel modo più dettagliato possibile ciò che era stato e in questo modo percepire la sensazione dolcissima di avere vissuto tanto e bene.

Era questo il senso di quelle serate.
Raccontare e raccontarsi la vita, una vita che stava finendo ma che aveva avuto il suo perchè.

Come tutte le sere, dopo averle dato le medicine me ne andavo e la lasciavo dormire.
C’era solo una porta che ci divideva pertanto lei si sentiva sicura.
Un bacio sulla fronte, un rapido “Buonanotte” e poi tornavo nel mio appartamento.
Ogni volta che la lasciavo avrei voluto abbracciarla forte, dirle cose che non le avevo mai detto, insomma salutarla come se fosse l’ultima volta che la vedevo.
Il giorno dopo forse non si sarebbe svegliata o sarebbe entrata in coma, ma come dare sfogo a questo mio bisogno quando lei in fondo non aveva mai perso la speranza di guarire?
Cosi’ mi limitavo a salutarla come niente fosse, come normalmente ci si dà la buona notte in una qualunque serata dicendo reciprocamente un frettoloso “a domani” sicuri che quel domani ci sarà.

La morte è stata gentile con lei e con me.
Ci ha dato un po’ di quel tempo necessario almeno negli ultimi istanti della sua vita.

Comunque quella sera, nonostante fossi molto stanca, non riuscivo a prendere sonno.
Avevo ancora tutte quelle immagini viste nel pomeriggio che si rincorrevano nella mia testa e continuavo a pensare a come dare un senso al trambusto di emozioni che avevo dentro.
Ci misi un bel po' ma alla fine una piccola idea prese forma.
Mi riproposi di mettermi al lavoro il pomeriggio seguente.
Il giorno dopo, infatti, con molta piu’ calma, ripresi il foglio bianco e iniziai a disegnare il mio samurai.
All’inizio la figura era ancora di tipo tradizionale, vesti fluttuanti e tratti rotondi. Una figura del tutto reale insomma.

Ma non era quello che volevo io.

Da quel giorno, per tre mesi ho studiato, disegnato, rimuginato e patito su quei fogli ogni giorno e perso ore e ore di sonno ogni notte fino a che non ho trovato quello che cercavo e non ho lasciato emergere il mio vero mezzo di espressione.
Allora si che il mio primo samurai ha preso forma, si è materializzato davanti a me con tratti brevi, incisivi , essenziali.
Avevo trovato la mia strada.

Non erano importanti i dettagli. Quello che restava dopo aver pulito, scrostato, mondato e depurato la realtà era l’essenza. La schematizzazione della figura faceva emergere l’intrinseca sobrietà dell’anima, la sicurezza dei confini tracciati dava spessore all’immagine, la sensualità composta e il rigore conferivano bellezza e dignità alla forma.
Ho continuato a disegnare figure sempre piu’ complicate fino a che ho provato a trasferire i miei disegni su tela.
Da quel momento dipingere fa parte della mia vita di ogni giorno.
A volte è una lotta, una strada tutta in salita, un ostacolo che sembra impossibile da superare. A volte è il cielo che si spalanca, è l’anima che si fa colore, è la passione che mi travolge e assorbe ogni mia energia.

Nel tempo il mio percorso pittorico ha subito dei cambiamenti anche grazie all’apporto di insegnanti capaci e molto pazienti che mi hanno introdotto a tecniche pittoriche a me sconosciute le quali mi hanno dato la possibilita’ di sperimentare nuove idee e affrontare nuove sfide, senza però mai dimenticare la mia grande passione per la ricerca grafica della forma.
Ho sempre pensato che il rigurgitare sulla tela quello che avevo dentro mi ha fatto capire chi ero, chi sono e forse anche ciò che voglio essere.
La tela non si lascia dipingere. La tela ti costringe a dipingere ciò che sei, a scoprire le tue più intime emozioni.
Puoi mentire con tutti ma non a lei.

Ho scoperto così di essere una raddrizzaquadri, una che deve mettere sempre i puntini sulle i, una che non sopporta il disordine sia intorno a sè sia mentale, una che deve per forza organizzare tutto nella sua vita per paura di non avere il tempo di viverla.

Ho scoperto di essere frenetica e di amare una vita piena di cose da fare per paura che la morte mi sorprenda senza aver vissuto pienamente.

Ho scoperto che ho una dolcezza di fondo che non lascio quasi mai trasparire, un posto tutto mio che nascondo per non essere ferita.

Ho scoperto che dipingere mi ha aiutata a tirare fuori il dolore che c’è in me. Ho dovuto fare i conti con la mia ansia, con una depressione di base che mi accompagna da tutta la vita, una sorta d’incantesimo che solo la pittura ha potuto sciogliere.

Credo che il fatto che abbia mosso i primi passi in questa direzione proprio quando mia madre era malata sia stato un estremo bisogno di aggrapparmi a qualcosa che per qualche ora occupasse la mia mente altrimenti troppo compressa da problemi di ordine diverso.

Mi sono salvata, sono cresciuta, ho capito molto di me e ho vomitato la mia rabbia.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Splendida...
Come un Segno dal Cielo, un'improvvisa Illuminazione, un piccolo Miracolo può aiutarci a ritrovare il Senso della Vita e poter andare avanti

Laura

La raddrizzaquadri ha detto...

Grazie Laura per il tuo commento. Sono sensibilmente commossa dalle tue parole e ti ringrazio per aver condiviso questo pensiero profondo. Mi auguro di averti ancora partecipe al mio blog.

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